Tra le opere di narrativa dello scrittore, poeta e saggista toscano Idilio Dell’Era (pseudonimo di Don Martino Ceccuzzi), originario della campagna di Chiusi, in provincia di Siena, focalizziamo in questo articolo la nostra attenzione su una delle leggende inserite nella raccolta “Leggende toscane” (1934).
La leggenda de “La Chioccia dai pulcini d’oro” (detta anche “La Chioccia di Porsenna”)
La leggenda de “La Chioccia dai pulcini d’oro”, mitico tesoro del lucumone Porsenna, è dalla maggior parte degli studiosi collocata geograficamente in Toscana (nel senese), ma per alcuni, invece, potrebbe anche essere la “òccula e li puricini ti oru” pugliese, nonché la gallina con cinquemila pulcini d’oro sotterrata in una necropoli etrusca in provincia di Prato, ma anche quella di Artimino e Malmantile sempre in Toscana, oppure quella di Randazzo e Novara in Sicilia, o ancora, infine, quella di Cirò e Longobucco in Calabria, dove la “Chiocchia della Gnazzitta” giace ancora nascosta sotto qualche macigno.
Altra leggenda simile è quella marchigiana dei sotterranei di Camerano del Conero, in cui si narra di una grande stanza con un altare al centro, in cui si troverebbe una chioccia d’oro con dodici pulcini dorati.
Tutte queste leggende, non troppo dissimili tra loro, potrebbero anche essere ricondotte al gruppo scultoreo della “Chioccia coi i sette pulcini d’oro” della regina Teodolinda, di cui vi abbiamo già parlato qualche tempo fa.
- Balestri, Diego(Autore)
La leggenda de “La Chioccia di Porsenna” trae origine dall’opera “Naturalis Historia” di Plinio il Vecchio, in cui si fa riferimento ad un mastodontico mausoleo in cui si narra sia stato sepolto il condottiero etrusco, e sotto al quale si sarebbe snodato un labirinto talmente intricato da far impallidire quello del Minotauro di Creta. Tale mausoleo sarebbe stato fatto costruire dal Re Porsenna in persona per ospitare le sue spoglie, che ancora oggi, secondo la leggenda, riposerebbero al centro del labirinto, adagiate su un cocchio d’oro trainato da dodici cavalli e vegliato da una chioccia con cinquemila pulcini:
«E ora conviene parlare del [labirinto] italico, che fece per sé Porsenna, re dell’Etruria, per sepolcro, e allo stesso tempo affinché fosse superata la vanità dei re stranieri anche dagli Italici. […] Fu sepolto sotto la città di Chiusi, nel qual luogo lasciò un monumento quadrato in pietra squadrata, ciascun lato largo 300 piedi e alto 50. In questa base quadrata c’è all’interno un labirinto inestricabile, dove se qualcuno vi entrasse senza un gomitolo di lino, non potrebbe trovare l’uscita.» (da Naturalis Historia di Plinio il Vecchio)
La leggenda de “La Chioccia di Porsenna”, di Idilio Dell’Era
Per Idilio Dell’Era la leggenda è “cosa di popolo, un prodotto inevitabile, e quasi fatale, della psiche popolare”.
Ecco qui di seguito riportata la leggenda de “La Chioccia di Porsenna”:
“Porsenna, il re di Chiusi, o come tutti lo chiamavano il re degli Etruschi, era ormai dimolto vecchio. Sentendo che gli anni gli pesavano sulle spalle, tornava con la mente al tempo glorioso delle sue imprese di guerriero e di re. Si esaltava specialmente alla considerazione che la sua piccola città tutta chiusa di torri, di bastioni, di laghi e di monti fosse riuscita, sia pure per un momento solo, a soggiogare la Roma di Tarquinio il Superbo. E voleva lasciar di sé un ricordo immortale, un bel carro d’oro trainato da dodici cavalli d’oro, dentro vuoto a guisa di sarcofago, e con sopra, scolpita in oro, la sua statua in posa di trionfo come gli antichi conquistatori romani. Detto fatto, chiamò gli orafi più famosi dei dintorni e affidò loro l’esecuzione del portentoso progetto.
Ora nell’atrio del palazzo regale divenuto d’improvviso ardente fucina, si vedevano gli orafi scamiciati, tinti e affumicati lavorare di gran lena notte e giorno. Si udivano i colpi dei magli rintronare sull’incudine, e il re Porsenna ritto in mezzo ai validi artefici curava che i cavalli fossero ben modellati, posava perché la sua statua fosse a lui somigliante. Dopo parecchie settimane, il lavoro fu finito e tutti potevano venire alla reggia ad ammirare il magnifico cocchio d’oro. I dodici cavalli infatti erano uno più bello dell’altro. Mandavano fiamme dalle narici, e scalpitavano all’aria come una fuga trionfale. E la statua somigliantissima del re si ergeva in alto con le mani conserte sul petto, e lo sguardo scintillante. Pareva piuttosto un mausoleo di qualche deità etrusca, che il monumento di un re mortale.
Porsenna, che dalla gioia si sentiva ringiovanito di cinquantanni e non finiva più di rimirare quel capolavoro, volle che gli orafi dessero a lui un’altra prova della loro valentia e genialità.
“Voi mi dovete fare – disse – una bella chioccia d’oro con cinquemila pulcini tutti d’oro.”
Gli orefici tentennarono la testa e accolsero con gaudio la proposta.
Presero dalle mani del re lunghe verghe di oro grezzo e massiccio, di quello che il locumone teneva celato nei sotterranei profondi della reggia, lo buttarono su i carboni fiammanti dei bracieri, e le verghe cominciarono a piegarsi, a scintillare, diventando morbide e duttili come la cera. Poi, con graziosissimi ferri e soffietti, gli orefici modellarono su quella materia incandescente e calda una bellissima chioccia che pesava più di cinquanta chili, ed aveva le ali un poco ciondoloni, il becco sporgente in atto di chiamare i pulcini. E i pulcini piccoli come un pugno di un fanciullo erano tutti di un taglio e di una misura. Alcuni storcevano il collo, altri lo piegavano fino a terra in atto di beccare, altri se ne stavano accovacciati come rattrappiti, altri ancora spalancavano le alucce quasi volessero inseguire un insetto che ronzasse nell’aria. Erano un minutissimo e graziosisssimo esercito di piccoli batuffoli d’oro e volevano significare che anche nel regno animale, il re aveva il suo impero. E il vecchio Porsenna ne era veramente soddisfatto. Chiesta infatti agli dèi la virtù taumaturga di comandare a quelle creature di metallo, gli venne subito concessa. Ed egli appena si levava, sentiva la misteriosa chioccia croccolargli allegramente, e tutti i pulcini svolazzavano e gemevano: – Pio, pio, pio! – Poi gli andavano lietamente incontro e chi gli saltava su un ginocchio, chi gli montava in cima alle spalle, sulla testa, sul naso, facendo sgambetti e svolazzi graziosi. Quando pigolavano tutti assieme, la reggia pareva tutta un gemito di voci piccoline come un bosco carico di nidi di mezza estate.
E la sera, prima di coricarsi, il re contava, con una premura da massaia, ad uno ad uno tutti i pulcini, si faceva da loro beccare la punta delle dita, poi mormorando un saluto se ne andava a dormire convinto che anche per un re è più facile comandare alle bestie che agli uomini.
Ma gli anni anche per lui passavano e si accorgeva di esser vicino alla morte. Allora, da bravo etrusco rispettoso di tutte le leggi e di tutte le tradizioni, chiamò a sé i più esperti scavatori di tombe e ordinò loro che scavassero per lui un labirinto capriccioso e impenetrabile con tante celle una dentro l’altra, e volte e pilastri grandiosi come si conveniva a un re.
Di notte, perché nessuno li scorgesse, i validi operai scavarono il labirinto funerario.
Si udivano i loro bidenti dentro la terra sviscerare lentamente e si vedeva il buon locumone salutare ogni sera le dolci cose del mondo quando il sole si accorava sulla cima dei monti, nel cuore azzurro dei laghi.
Tutto disponeva con premura. Pensava che non avrebbe più dormito nella sua reggia ma dentro il suo bel carro d’oro, giù giù dentro le celle della terra tepida e tenebrosa. E la chioccia e i pulcini li avrebbe portati con sé laggiù perché col loro pigolio gli avrebbero allietato l’eterno sonno. Forse avrebbero continuato ogni mattina a svegliarlo nel regno degli elisi ed egli avrebbe sentito quel suono di piccole voci viventi come un lieto saluto umano, ed avrebbe ripensato alle cose lontane come sommerse in un sogno di luce.
Poi tranquillamente si addormentò una sera che erano mézzi di biondi grappoli i clivi e sulle valli del suo regno pascevano i greggi bianchi incantati in una perla di sole.
I Silfi lo adagiarono dentro il suo cocchio d’oro, a notte. Apersero adagio la reggia e, seguiti dalla chioccia e dai cinquemila pulcini, sfilarono per le strade della città. E subito una nube salita dal lago, bianchissima più della panna del latte si posò su i tetti delle case, lungo le pendici, sulle vie. Nessuno poteva vedere il fantastico corteo che per virtù degli dèi si svolgeva di nascosto e in silenzio.
Soltanto la mattina, quando il sole, levandosi dalle pendici dell’Umbria, illuminò la terra fresca, i pampini verdi delle vigne, si videro sulla strada i segni minutissimi delle zampette dei pulcini d’oro e della chioccia d’oro, scintillanti come una brugliola di marenghi.
Ma della tomba misteriosa nessuno seppe più nulla, neppure che l’aveva scavata perché il suolo si ricoprì di verdissime piante, sicché fu smarrita ogni traccia.
***
Dentro le viscere di una terra etrusca in riva a un lago, l’antichissimo re passeggia sopra il suo cocchio d’oro coi cinquemila pulcini d’oro che lo seguono.
Nei lucidi mattini d’autunno, i vecchi bifolchi di Val di Chiana spingono al solco i loro placidi buoi color della neve, si piegano sull’aratro fiduciosi di vedere, fra le zolle fumanti e nere riapparire, di momento in momento, il sepolto re d’Etruria, o di scovare la bella nidiata dei pulcini d’oro.
Ma la terra sorride fra i rami chiari degli ulivi e a luglio la messe scintilla come un manto regale e da tutte le aie contano i prosperosi nepoti dell’antica chioccia, tutti con la cresta di fiamma …”
(da “Leggende Toscane”, 1934; di Idilio Dell’Era op. cit.)
Nel video sottostante alcune immagini di questo sistema idrico etrusco nei sotterranei di Chiusi.